domenica 29 aprile 2012

I giovani padri e la depressione post-partum

Nonostante il fenomeno della depressione legata alla nascita di un bambino sia stato solo ricondotto alla condizione materna, diversi studi mettono in luce il fenomeno anche tra i giovani papà, soprattutto nel post partum (Huang e Warner, 2005).
Moltissimi studi dimostrano come la depressione materna abbia effetti devastanti sulla crescita psicologica, cognitiva e sociale del bambino (Kurstjens EG & Wolke, 2001; Cummings e Davies, 1994; Hossain et al, 1994), sottolineando soprattutto che il miglioramento delle condizioni mentali della madre non migliora necessariamente quelle del bambino e quindi il bisogno di prevenire la depressione post-partum e non solo di curarla.
Tra le cause di questa depressione che racchiude fattori quali la personalità e il rapporto con l’infanzia, molto importante è la relazione con il partner. Molto infatti dipende dalla capacità di quest’ultimo di supportare la madre nei suoi bisogni e contenerne ansia e angoscia legata ai bisogni stessi del bambino, al saper rinunciare in alcuni momenti al proprio ruolo di maschio per entrare in quella di padre. E’ dimostrato infatti che le neo mamme depresse ricevono più conforto dal proprio partner che da chiunque altro (Holopainen, 2002).
Molti studi effettuati soprattutto in Canada e negli Stati Uniti, dimostrano come il coinvolgimento dei padri nei corsi pre e post partum dimostrino una significativa riduzione dei sintomi depressivi nelle madri a distanza di un mese contro il peggioramento degli stessi sintomi dove l’interesse era solo per le condizioni cliniche della madre stessa.
Diventa allora monitorare e capire quando anche il neo-papà è a rischio di depressione.
Le stime parlano di un’incidenza pari al 7,30%, mentre uno studio danese sottolinea che vi è il 50% in più di incidenza di depressione nei giovani padri rispetto all’incidenza riscontrata nella stessa fascia di popolazione maschile di pari età.
I fattori scatenanti sono ritenuti essere:
  • la mancanza di sostegno e disaccordo nella coppia in relazione alla gravidanza ed alla gestione del bambino.
  • problemi legati al rapporto con l’infanzia
  • problemi di dipendenza ed abuso di sostanze
  • difficoltà della madre nel rapporto con il bambino e quindi alla depressione
  • basso reddito che non permette loro di poter usufruire del supporto e delle risorse disponibili per poter aiutare la coppia nella gestione del bambino


Più è labile il rapporto con la madre più è alto il rischio di depressione ma ad incidere ancora di più sembra essere il grado di coinvolgimento del padre nella gravidanza.
Un recente studio americano condotto da Huang e Warner nel 2005 ha rilevato tassi di depressione paterna pari a:


  • 6,6% nei padri sposati
  • 8,7% conviventi
  • 11,9% non conviventi ma sentimentalmente coinvolti
  • 19,9% padri descritti dalle madri come "non partecipi"
Un recente studio Inglese e Americano ha messo in evidenza come la depressione riscontrata nei bambini di circa 3 anni e mezzo di età sia associata ad una precedente depressione del padre dopo la loro nascita (Ramchandani e coll. 2005)
Se il padre è depresso e passa molto tempo con il bambino, gli effetti su quest'ultimo sono stati riscontrati essere più devastanti di quelli provocati dalla depressione materna (Mazulis et al. 2004)

Supportare psicologicamente e socialmente i padri diviene in quest'ottica fondamentale soprattutto nelle famiglie dove si riscontra una depressione cronica materna poiché diventano figure chiave nel riuscire ad avvicinare gradualmente mamma e bambino e nel fornire a questi ultimi un valido modello relazionale sia a breve che a lungo termine.

tratto da Fatherhood Institute 
http://www.fatherhoodinstitute.org/

Allarme autismo in America



In concomitanza con la “giornata mondiale dell’autismo” che si celebrerà il 2 aprile, esce oggi negli USA il risultato di uno studio durato ben 8 anni che ha portato le autorità sanitarie federali ad alzare notevolmente la stima della prevalenza dell'autismo nei bambini: 1 su 88.
L'analisi, basata su una revisione di decine di migliaia di cartelle cliniche e scolastiche in 14 Stati, è stata rilasciata dal US Centers for Disease Control and Prevention ed 'l'ultimo di una serie di studi che mostrano tassi di autismo in una crescita drammaticamente vertiginosa nell'ultimo decennio. La stima precedente era di 1 su 110.

Depressione: la seconda causa di morte nel 2020



Articolo di Gloria Origgi, tratto da: http://www.ilfattoquotidiano.it.


 Gelo. Il corpo rallenta, la testa è in letargo. In inverno, il consumo di antidepressivi aumenta considerevolmente, grazie anche a una serie di diagnosi stagionali, come il tristissimo Sad, o Seasonal Affective Disorder, una delle numerose sindromi che ingrassano il Dsm4, il manuale più usato nel mondo, edito dall’American Psychiatric Association per diagnosticare i disturbi mentali (in preparazione la quinta edizione, che uscirà quest’anno).

Cosa sono le malattie mentali? Esiste davvero un mal sottile che colpisce solo l’anima lasciando intatto il corpo? Sappiamo bene che la maggior parte dei disturbi psichici colpisce l’intero sistema mente/corpo: bulimia, anoressia, depressione, ansia…Eppure, la teoria che ha fatto fare miliardi all’industria farmaceutica degli ultimi vent’anni è basata su un principio di riduzione molto semplice: la malattia mentale nasce da uno squilibrio chimico nel cervello. Dunque: si ristabilisce l’equilibrio chimico e, hop!, si è guariti!

In un articolo recente su The New York Review of Books, la psichiatra Marcia Angell discute tre libri americani che criticano il nuovo paradiso artificiale degli psicofarmaci. Oggi, nel mondo, assistiamo a una vera e propria epidemia di disturbi mentali. Un rapporto dell’Ocse afferma che nel 2020 la seconda causa di decessi e d’invalidità sarà la depressione, dopo le malattie cardiovascolari. Cos’è successo? Perché la generazione umana dalla testa più medicalizzata si trova davanti a tanto sfacelo? Secondo la Angell, l’epidemia è provocata dal circolo vizioso che lega l’industria farmaceutica e la professione psichiatrica da quando gli psicofarmaci hanno fatto la loro comparsa nel mercato della medicina di massa, ossia dalla commercializzazione del Prozac nel 1987.

Uno dei libri recensiti, Unhinged. The Trouble with Psychiatry – A Doctor’s Revelation about a Profession (New York, Free Press, 2010) di Daniel Carlat definisce la teoria della malattia mentale come squilibrio chimico nel cervello “un comodo mito”. A partire dagli Anni Cinquanta, ci si rese conto in effetti che, modificando chimicamente i livelli di serotonina nel cervello – un neurotrasmettitore fondamentale nella trasmissione neuronale – molti disturbi bipolari o depressivi di attenuavano. Con la scoperta dei cosiddetti inibitori del riassorbimento della serotonina, come il Prozac, il Citalopram, ilPaxil, etc. oggi si può impedire il riassorbimento della serotonina da parte dei neuroni che la liberano: in questo modo resta abbastanza serotonina nelle sinapsi per attivare altri neuroni e provocare uno stato di benessere. Ma ciò non spiega perché cambiare i livelli di serotonina faccia bene: sarebbe come dire che, dato che i narcotici curano il dolore, il dolore è provocato da una carenza di narcotici! Insomma, la diagnosi del deficit della serotonina nel cervello è stata in inventata da chi ha prodotto i farmaci che la curano.

Altri due libri discutono di questioni più ampie, legate al mercato degli psicofarmaci e agli studi clinici realizzati per testarli: The Emperor’s new Drugs di Irving Kirsch (Basic Books, 2010) e Anatomy of an Epidemic, di Robert Whitaker (Broadway, 2011). Kirsch, anche lui psichiatra, studia da 15 anni l’effetto- placebo. In una serie di studi recenti, ha replicato gli esperimenti fatti dalle case farmaceutiche sugli antidepressivi, mostrando, che, nel 75% dei casi il loro effetto non è maggiore di quello di un placebo: ossia, nelle tre/sei settimane che seguono l’inizio del trattamento, lo stato del paziente migliora: ma migliorerebbe anche se non prendesse nulla.

Il terzo libro è invece dedicato al circolo vizioso che lega le case farmaceutiche agli psichiatri. Prima dell’esistenza degli psicofarmaci, gli psichiatrici erano medici per così dire, trattati dai colleghi come medici di serie B, che si occupavano più che altro di gestione del personale ammalato che di vere malattie. Gli psicofarmaci hanno invece incoronato la psichiatria come “scienza dura”: molti psichiatri ormai si limitano a dare ricette di medicinali, indirizzando i pazienti verso gli psicoterapeuti se sentissero il bisogno anche di una “terapia della parola”. Il nuovo ruolo sociale della psichiatria ha, secondo Whitaker, trasformato totalmente l’immagine della malattia mentale, con l’effetto positivo di de-stigmatizzarla (un depresso è un malato a tutti gli effetti, non un rompiscatole umorale) e, negativo, di cronicizzarla: i successi degli psicofarmaci fanno fiorire nuove diagnosi e nuove malattie che non esisterebbero se quelle medicine non ci fossero. Infatti, secondo Whitaker, assumere medicinali di questo tipo per lungo tempo, cronicizza i sintomi e fa sì che il cervello, da solo, non sappia più produrre i livelli adequati di serotonina o di adopamina, o di altro.

Ci troviamo così in un mondo di cervelli tutti uguali, che per tenersi insieme producono artificialmente neurotrasmettitori al ritmo che è considerato “normale”, nel buio di qualsiasi diagnosi che ci spieghi perché, a un certo punto nel mezzo del cammino di nostra vita, un demone sia venuto a scombinarci la testa, un angelo sia caduto dal cielo e ci abbia guardato con occhio satanico, la terra sia diventata d’un tratto desolata e il freddo e il buio si siano infilati nel più profondo della nostra anima.

Teniamoci stretto il Prozac, perché almeno ci fa bene, ma non pensiamo con questo di aver capito cosa ci succede, o cosa successe a tanti cantori del male oscuro che si attardarono troppo ad ascoltare le sirene e furono ingoiati nei flutti.